Differenza tra residenza “di fatto” e “anagrafica”
L’imposta sulle successioni è dovuta in relazione a tutti i beni e diritti trasferiti, ancorché esistenti all’estero (art. 2 comma 1 del DLgs. 346/90).
Il secondo comma, sempre dell’art. 2 del DLgs. 346/90 (“se alla data dell'apertura della successione o a quella della donazione il defunto o il donante non era residente nello Stato, l'imposta e' dovuta limitatamente ai beni e ai diritti ivi esistenti”) limita però l’estensione del principio di territorialità.
Di conseguenza, la territorialità dell’imposta sulle successioni si imbatte in due condizioni:
Dunque elemento essenziale per definire l’applicabilità dell’imposta sulle successioni italiana è quello della residenza del defunto al momento del decesso. Tale concetto, però, non viene ulteriormente specificata dall’art. 2, generando così alcuni dubbi.
Innanzitutto l’art. 43 del Codice Civile stabilisce che il domicilio di una persona è nel luogo in cui essa ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi, la residenza, invece, è nel luogo in cui la persona ha la dimora abituale.
Tale definizione di “residenza” fa riferimento, quindi, a una situazione “di fatto”, in quanto implica la verifica della presenza del soggetto nel luogo, opposta al domicilio che costituisce, invece, una condizione “di diritto”, in quanto prescinde dalla presenza reale del soggetto sul posto.
Tuttavia, la residenza “di fatto” potrebbe non coincidere con la residenza “anagrafica”, ovvero il luogo che la persona ha comunicato all’Anagrafe quale suo luogo di residenza abituale.
Pertanto, se il Testo Unico delle imposte sulle successioni e donazioni fa riferimento alla “residenza” del defunto e non al domicilio, ci si può domandare se, a questo punto, sia necessario fare riferimento alla residenza “anagrafica” o alla residenza “di fatto”.
In particolare, la questione si fa rilevante laddove i due termini non coincidano. Immaginiamo un soggetto che, pur avendo conservato la propria residenza “anagrafica” in Italia, al momento della morte si trovasse all’estero, dove risiedeva stabilmente da più di un anno.
In questo caso, nel valutare se, ai fini dell’art. 2 del DLgs. 346/90, il defunto vada considerato “residente in Italia”, bisogna stabilire se dare rilievo:
Inoltre, diversamente da quanto avviene nel caso delle imposte sui redditi, per l’imposta sulle successioni, la verifica della residenza è ancorata a una data precisa (il momento della morte), sicché il riferimento alla “residenza di fatto” potrebbe prestarsi a distorsioni.
È poca la dottrina che ha affrontato questo argomento e si esprime in senso non univoco. Da una parte viene ritenuto che le risultanze anagrafiche possano costituire solo un primo riferimento, che potrebbe, però, essere superato laddove il contribuente interessato o l’Amministrazione finanziaria dimostrassero che la residenza effettiva del defunto è diversa da quella anagrafica. Dall’altra si ritiene, invece, che il legislatore dell’art. 2 del DLgs. 346/90 intendesse fare riferimento alla residenza anagrafica, per cui, in caso di divergenza tra residenza “anagrafica” e residenza “di “fatto”, dovrebbe prediligersi l’elemento formale e quindi la residenza “anagrafica”.
Va detto però che, in presenza di una convenzione internazionale sull’applicazione dell’imposta sulle successioni, il conflitto di competenza va risolto applicando le norme convenzionali. Nella riposta n. 206/2020 (anche se in quel caso si trattava della successione di un soggetto non residente in Italia, avente ad oggetto un immobile in Italia e non era messa in discussione la residenza dei soggetti coinvolti) l’Agenzia delle Entrate ha fatto riferimento, per quanto concerne la disciplina fiscale, alla normativa convenzionale, secondo la quale “i beni immobili che fanno parte della successione o di una donazione di una persona domiciliata in uno Stato e sono situati nell’altro Stato sono imponibili in questo altro Stato”.
Fonte: eutekne.info
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