No all’agevolazione se il lavoro è la continuazione di un rapporto precedente
Lo sviluppo tecnologico e i sistemi di connessione sempre più evoluti consentono, per alcune tipologie di lavoro, la possibilità di rendere la prestazione da un qualsiasi luogo.
Pertanto, un dipendente assunto all’estero da un datore di lavoro non residente potrebbe decidere di trasferirsi in Italia prestando la propria attività da remoto (smart working). Tuttavia, da un punto di vista fiscale e previdenziale, la gestione del personale di un’azienda estera non presente fisicamente sul territorio italiano presenta delle criticità.
In applicazione della lex loci laboris, secondo la quale la legislazione di riferimento da applicare a ogni singolo rapporto di lavoro è quella prevista (tanto per la sfera previdenziale, tanto per quella contrattuale) dallo Stato ove la prestazione stessa viene resa, il dipendente sarà soggetto appunto alla legislazione previdenziale italiana e, di conseguenza, l’azienda estera, ottenuta l’iscrizione presso la Direzione INPS competente per territorio, potrà procedere con gli adempimenti contributivi periodici, secondo le ordinarie scadenze. E da un punto di vista fiscale, le trattenute non saranno dovute, e gli obblighi tributari potranno essere assolti dal dipendente attraverso la predisposizione della dichiarazione dei redditi.
Tuttavia, nel caso del dipendente trasferito in Italia per lavorare da remoto per un datore estero, sorge il dubbio sull’applicabilità del regime degli impatriati.
Una recente risposta a interpello della Direzione regionale dell’Agenzia delle Entrate del Lazio può venirci incontro per fare chiarezza.
Secondo la Direzione, il trasferimento in Italia del dipendente per lavorare in modalità smart working per il datore estero non è meritevole dell’agevolazione, nel caso in cui il lavoro svolto in Italia non rappresenti una nuova occupazione, ma la continuazione di un rapporto precedente che viene semplicemente reso in modalità da remoto dall’Italia.
L’Agenzia delle Entrate nella circolare n. 17/2017 aveva chiarito, in un primo momento, che il beneficio non compete ai soggetti che rientrano in Italia dopo essere stati in distacco all’estero e aver acquisito la residenza estera per il periodo di permanenza richiesto dalla norma, in quanto il loro rientro, avvenendo in esecuzione delle clausole del preesistente contratto di lavoro, si pone in sostanziale continuità con la precedente posizione di lavoratori residenti in Italia e, pertanto, non soddisfa la finalità attrattiva della norma.
Successivamente l’Agenzia, tornando sul tema, ha confermato che, per evitare l’uso strumentale dell’agevolazione, l’accesso al regime degli impatriati richiede che il lavoro svolto in Italia sia diverso dalla precedente posizione lavorativa.
Sembra però esistere una sostanziale differenza tra chi rientra da un precedente distacco per lavorare in Italia rispetto al dipendente che lavora da remoto per il datore di lavoro estero.
Nel primo caso, infatti, il dipendente che dopo il distacco si reinserisce all’interno di una unità produttiva italiana per svolgere un ruolo diverso soddisferà la finalità attrattiva della norma, in quanto porterà nuove competenze ed esperienze in Italia. Nel secondo caso il dipendente che lavora da remoto non si trasferisce in maniera effettiva in Italia, in quanto, seppur delocalizzato, rimane legato al suo datore estero, non interagendo con il sistema produttivo italiano e di conseguenza non soddisfacendo la finalità attrattiva della norma.
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